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L’immediatezza delle cifre a volte sa
raccontare la realtà meglio di tante
parole. È esattamente così per il Terzo
settore, un universo di organizzazioni
tanto variegato e multiforme quanto
capillarmente presente nelle maglie
della società italiana, al punto che è
difficile ormai distinguere l’uno
dall’altra.
E un contenitore sconfinato di storie
belle, spesso esemplari, che raccontano
di come nonostante i molti ostacoli da
superare (i cronici ritardi nei
pagamenti dalla Pubblica
amministrazione, ad esempio, o l’estrema
difficoltà ad essere ascoltati dal
circuito creditizio tradizionale, solo
per citarne un paio), l’Italia sia piena
di persone che restano caparbiamente
capaci di silenziosi miracoli
quotidiani. Senza fine di lucro. Ecco i
numeri, allora, che a chi non ha mai
guardato negli occhi il Non profit (ma
sono rimasti davvero in pochi, in
Italia) possono sembrare sorprendenti.
Ma che sono destinati ad aumentare con
il nuovo censimento che l’Istat avvierà
in primavera.
Il Terzo settore vale intorno al 5% del
Pil. Secondo il censimento Istat 2001,
le organizzazioni non profit sono
235mila (oggi potrebbero essere tra 300
e 400mila), attive in particolare nella
cultura, sport e ricreazione, poi
nell’assistenza sociale, nella tutela
degli interessi dei cittadini e
nell’istruzione e ricerca. Comprendono
realtà di natura molto diversa:
associazioni (di volontariato,
culturali, sportive, di promozione
sociale), cooperative sociali e imprese
sociali, fondazioni, enti a carattere
socio-assistenziale e mutualistici,
organizzazioni non governative,
comitati, istituzioni educative,
culturali e di formazione e ricerca.
Circa 750mila gli occupati, che sommati
ai quasi 3,5 milioni di volontari (ma
secondo recenti indagini sfiorano i 5
milioni) costituiscono un esercito di
oltre 4 milioni di operatori, in
maggioranza donne e laureati: la sola
valorizzazione economica del lavoro dei
volontari è calcolata in circa 8
miliardi di euro.
Si stima, inoltre, che il numero di
cittadini che mediamente fruiscono dei
servizi del Non profit sia intorno ai 50
milioni di persone. Se le associazioni
sono la forma di organizzazione di gran
lunga prevalente, a svolgere l’attività
economicamente più rilevante sono
cooperative sociali e imprese sociali in
genere: l’Istat a metà del decennio
scorso contava quasi 7.500 cooperative
sociali (contro 4.700 fondazioni e
21mila organizzazioni di volontariato),
ma nel più ampio perimetro delle imprese
sociali oggi si stima siano attive
20mila realtà. Proprio da queste ultime,
senza nulla togliere alle altre, ci si
può probabilmente attendere l’evoluzione
più interessante: in termini soprattutto
di capacità di creare un’occupazione
contraddistinta dal fatto di essere
«utile, cioè che oltre a dare reddito –
spiega Claudia Fiaschi, presidente del
Consorzio Cgm, la più grande rete
italiana di imprese sociali (un
migliaio) – restituisce beni e servizi
alla collettività, con il lavoro che
viene inteso come forma di
partecipazione alla costruzione del bene
comune.
La cooperazione sociale ha sempre avuto
una funzione anti-ciclica, per cui se
l’economia ordinaria espelle lavoratori,
il nostro mondo tende a mantenere e
anche a incrementare i livelli
occupazionali, spesso riuscendo anche a
rimettere al lavoro il talento dei
giovani»: nell’ultimo triennio, proprio
quello in cui la crisi ha colpito più
duro, il sistema Cgm ha infatti
continuato a crescere sia in termini di
fatturato (+15% il valore medio della
produzione), sia in termini
occupazionali, arrivando a toccare oggi
i 45mila addetti, di cui oltre il 70%
sono donne e spesso in posizioni di
responsabilità (rappresentano il 37% dei
presidenti di cooperativa). Dove invece
la crisi ha portato dei cambiamenti è
nella composizione degli occupati:
«Quest’anno – prosegue Fiaschi – abbiamo
registrato un innalzamento dell’età
media fra i nostri occupati, con molte
persone over50, cioè proprio chi oggi
perde il lavoro ed è più esposto a
situazioni di fragilità personale e
familiare: è uno dei ruoli, molto
importante soprattutto ora, che viene
svolto da questa particolare economia».
Le imprese sociali potrebbero inoltre
esercitare una forte contaminazione sul
settore profit, proponendo un modello
d’impresa decisamente più attento alle
persone e all’ambiente.
E in piena sintonia con l’esigenza di
molte imprese profit impegnate a
condurre sempre più la propria attività
secondo principi di responsabilità
sociale: «La potenzialità c’è» dice
Flaviano Zandonai, segretario di Iris
Network, la rete degli istituti di
ricerca sull’impresa sociale che svolge
una preziosa opera di monitoraggio e
analisi dell’evoluzione di questo
settore in Italia, anche in parallelo
con l’estero (ha lanciato un laboratorio
per lo scambio di esperienze con la Gran
Bretagna). Quello che occorre capire è
«se l’impresa sociale si svilupperà
nell’alveo del non profit – sottolinea
Zandonai – o se emergeranno fenomeni di
riadattamento o trasformazione dal
profit. Proprio perché il fenomeno si
presenta in forme variegate, avere
qualcuno che, oltre a controllare, lo
sostiene e promuove, come fa ad esempio
l’authority britannica per le Cic
(community interest company, ndr),
non sarebbe male».